Corrispondenza con il difensore del detenuto sottoposto al "carcere duro" art. 24 Cost. e art. 41-bis ord. penit.

Pubblicato il 5 gennaio 2023 alle ore 08:41

Viola il diritto alla difesa sancito dalla Costituzione all’art.24 il dettato normativo contenuto nell’art. 41-bis ord. penit., che impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto ed il suo difensore.

Sentenza 18/2022 della corte costituzionale: "Il diritto alla difesa include il diritto di comunicare, in ogni luogo, con il proprio difensore, anche al fine di consentire al detenuto di tutelarsi contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie".

La vicenda giudiziaria: un imputato, condannato in primo grado alla pena di venticinque anni di reclusione poiché ritenuto responsabile della direzione di un’associazione di tipo mafioso, e per questo motivo ristretto in regime ex art. 41-bis ord. penit., inviava un telegramma al suo avvocato. Il telegramma veniva censurato e ne veniva disposto il fermo.

 

I colloqui tra i detenuti ed i propri difensori sono improntati sulla libertà e segretezza della corrispondenza.

Qualora un avvocato non potesse liberamente conferire con il proprio assistito e ricevere da lui istruzioni riservate, al riparo dalla sorveglianza da parte dell’autorità, il suo lavoro e precisamente la sua assistenza tecnica, perderebbe la propria utilità.

Inoltre, il visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti con i loro difensori, costituisce una irragionevole compressione del diritto di costoro alla libertà e segretezza della propria corrispondenza, ma anche e soprattutto dei loro diritti di difesa e al giusto processo, come garantiti dalla Costituzione e dalla CEDU.

 

Il controllo e la censura della corrispondenza dei detenuti mira ad impedire che essi possano continuare ad intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza, ed a svolgere così ancora un ruolo attivo all’interno di tale organizzazione, in particolare impartendo ordini o istruzioni rivolti ad altri membri del clan.

La legittimità costituzionale della limitazione del diritto di comunicare liberamente ed in maniera confidenziale con il proprio avvocato, deve essere vagliata sulla base dei principi costituzionali e sulla generale e insostenibile presunzione che l’avvocato possa fungere da intermediario tra i detenuti e gli altri membri del sodalizio criminale, presunzione che getterebbe una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti.

 

I detenuti meno abbienti, trasferiti in una struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede il proprio difensore di fiducia, potrebbero servirsi della corrispondenza epistolare come mezzo principale per comunicare con il proprio avvocato, non potendo sostenere i costi e gli onorari connessi ai viaggi del proprio avvocato ai fini dello svolgimento dei colloqui.

Invece i detenuti provvisti, anche in ragione della propria posizione apicale nell’organizzazione criminale, di maggiori disponibilità economiche, potrebbero facilmente coprire tali costi.

Ciò creerebbe delle disparità e comprometterebbe il diritto alla difesa.

 

Per questi motivi la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. penit., nella parte in cui non esclude dalla sottoesposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Corte Cost. sent. 18/22 - Foro Romani n. 2/22

Che differenza c’è tra un galeotto e l’uomo della strada? Il galeotto è un perdente che ci ha provato”. 

–Charles Bukowski

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